Nel mare di articoli e commenti da cui siamo stati investiti nei giorni scorsi, uno dei temi su cui si è concentrata gran parte dell’attenzione, soprattutto a Sarajevo, è stato se le proteste in corso, le più radicali che la Bosnia Erzegovina ricordi, siano state orchestrate e prodotte dalla manipolazione politica.
Le lezioni del passato hanno portato i cittadini bosniaci a mantenere un atteggiamento estremamente scettico verso le versioni ufficiali degli eventi. In molti sono convinti del fatto che la verità sia nascosta dietro le quinte, che le immagini della realtà offerte siano soltanto un’illusione, e che i cittadini sono sempre vittime di un qualche tipo di manipolazione o cospirazione.
Anche se ad alcuni facinorosi pagati è stato consentito introdursi negli edifici governativi, è innegabile il fatto che in molte città bosniache siano apparsi migliaia, in alcuni casi decine di migliaia di lavoratori, pensionati e giovani umiliati, impoveriti e sconfitti, una massa di persone così diverse nel loro orientamento politico, nei pensieri, nelle paure e nelle speranze, che l’unica cosa ad unirle è la rabbia, giustificata ed a lungo soppressa, ora condivisa
Un nuovo soggetto politico collettivo?
Le proteste hanno aperto la strada non soltanto al cambio della guardia nei partiti politici, i cui movimenti sono più o meno prevedibili, ma anche all’articolazione di una nuova piattaforma politica che potrà genuinamente servire gli interessi dei cittadini di questo paese.
Per la prima volta dopo decenni, è possibile riconoscere un nuovo soggetto politico collettivo che non si rifà né al gruppo etnico né alla nazione, che unisce classi e generazioni diverse e che ha il potenziale di contestare le strutture di potere. Questo potenziale va usato al meglio, altrimenti perderemmo persino l’ultima speranza che ci resta.
A questo proposito, i manifestanti di Tuzla si sono dimostrati più maturi, presentando alle autorità una chiara lista di richieste e raccomandazioni su come realizzarle. Su questo gli altri centri della protesta sono indietro rispetto a Tuzla, persi in discussioni sulla violenza, se sia giustificata o meno, e sugli “hooligan”.
Una parte della pubblica opinione vede i giovani manifestanti come vittime del sistema in cui sono cresciuti, guardano a loro come ad una generazione aggressiva, distrutta, che non ha più niente da perdere perché nulla ha mai avuto. In altri invece, si è risvegliata una vecchia mitologia, quella dei “borghesi della čaršija” e del loro istinto di percepire come “altro da sé” chiunque non rientri nella costruzione, senza senso, dello “spirito di Sarajevo”, ovvero contadini, persone “arretrate” che in questi giorni sono diventate “hooligan”.
E’ anche visibile un po’ di ipocrita paura da parte delle persone a cui le scene dal centro della città ricordano troppo, e con troppo dolore, la guerra. Si tratta di una paura, vera, giustificata (condivisa dall’autrice di questo articolo) ma è anche il segno che per molte persone “tutto è ok, basta che non si spari”. Un’idea, una paura, questa, che ha a lungo impedito che manifestazioni così intense prendessero forma prima d’ora in Bosnia. Si tratta di una lettura delle cose che può avere ancora un po’ di presa a Sarajevo, i cui residenti godono (si fa per dire) degli standard di vita più alti di tutta la Bosnia, ma non ha alcuna forza ad esempio a Tuzla, dove c’è la più alta concentrazione di disoccupazione nel paese.
fonte: www.balcanicaucaso.org